Giovanna Cristina Vivinetto

 

Riflessioni su “Dolore minimo” di Giovanna Cristina Vivinetto.


 

 

Sull’esperienza di transizione


Vivinetto. Il cognome mi fa pensare al viver netto, senza compromessi ed è vero, nella poesia lei è tutta esposta, si mostra intatta, nonostante, contemporaneamente, riesca in un dialogo continuo tra le parti del proprio Sé.

Questo di lei subito mi colpisce: la capacità depressiva, per dirlo con Melanie Klein, d'integrare.

L’essere umano ha molti strati, la Szymborska parla di cipolla, e credo che parte della vita sia dedicata a riconoscerli per poterli “incontrare” e/o lasciar andare. Giovanna Cristina Vivinetto li fa intravedere bene dentro al suo Dolore Minimo.  Raccontando l’esperienza di transessualità mi permette di incontrare la mia esperienza di rinascita ed i miei continui “cambiamenti catastrofici”.

Vivinetto sa ascoltare qualcosa di sé che viene da lontano, è in contatto con l’inconscio, con ciò che c’era prima della sua esistenza, con l’esperienza del Risveglio. Per molto tempo nella vita si rischia di vivere con il “pilota automatico”, con quello che ci è stato insegnato ed offerto in modo preconfezionato, poi, può improvvisamente arrivare una voce lontana che ci dia indicazione sul senso profondo di quello che si è. Bisogna saper ascoltare, essere in una posizione recettiva, essere pronti anche a ricevere una scomoda verità. Ci vuole coraggio. Vivinetto ne ha ed insegna ad averne. Non lascia indietro niente del suo percorso e del suo dolore.

La consapevolezza di sé spesso arriva dalla natura, dalla connessione con l’universo, da un ascolto profondo dell’invisibile, da quella che alcune popolazioni chiamavano la Dea Madre. Alcune esperienze intime sono presenti da infinito tempo, ma serve la vita, il cammino per riconoscerle, per accettarle, per averne una “visione” e farle proprie.

p.111

Tutto iniziò con l’avere confidenza

Eravamo solo noi due e il corpo.

Dapprima c’ero io soltanto,

lei venne poi con l’urgenza piccola

del vento, della pioggia, delle radici

-di tutto ciò, insomma, che non si può

controllare ma semplicemente accade,

Riposava nell’ordine inviolato

della natura. Forse da secoli

era iscritta in una qualche cellula

tramandata col tempo fino a me.

Perciò non seppi, non potei scacciarla.

Dovetti, come ogni destino, prenderne

atto. Forse era qui per salvarmi.

Era me più di quanto io stesso

Potessi appartenermi. Mi fidai.

Così iniziai a darle spazio.

 

 

 

p.30 C’è in noi un'antichissima madre

Che abita la soffitta polverosa

e gli interstizi dimenticati dell'anima.

Ha la voce dell'abbandono

e un tono brusco che non ci si aspetta:

è dimentica delle buone maniere.

Una madre, si, ma priva del tatto

rassicurante della menzogna.

 

Possiede una forma materna

e mani materne ed occhi

di madre e verità di cose

occultate che odorano

di terra e foglie secche


 E una madre antichissima

quanto il dolore e la paura

della morte: eppure ci giocavo

tra i cespugli dell'infanzia.

 

Vi ritornai una volta sola

per liberarla, e me con lei.

Fu l'ultima volta che la vidi.

Mi parlò con parole terribili

che scansavo da tempo,

non osavo ascoltarle.

Fu madre e padre insieme

 

[…]

Solo ora comprendo,

a ventidue anni e un nuovo nome,

quanto male avrei fatto

a rinnegare l'antichissima voce

che mi ha fatto salva la vita

 

Vivinetto, come spesso accade ai grandi scrittori,  racconta al di là di quanto immaginato. Mette in parola la trasformazione che riguarda la ricerca profonda forse di ogni essere umano, quella che risponde alle domande: Chi sono io? Perché sono qui?  

Ha senso allora darsi un nuovo nome, costruire una nuova identità, perché quello che alla nascita accade ci connota, ma non ci determina. Credo che emanciparsi dalla propria madre significhi ri-partorirsi, conoscere il dolore per il proprio parto ed accettare e fare i conti con le proprie mostruosità.

p. 45

Allora ci fu solo da sbrogliare

gli anni subiti, mettere a posto

le parole e liberare all’aperto

quello che a mani giunte si temeva.

E quel mostro che in tanti anni

avevo allontanato, fu assai più

docile quando, abolite le catene,

lo presi infine per mano.

Da persone e da clinici penso si debba incontrare il proprio Acheronte facendo la propria discesa agli inferi in vita, pena è l’essere già morti.

p.89

Noi eravamo fra quelli chiamati

contro natura. Il nostro esistere

ribaltava e distorceva le leggi

del creato. Ma come potevamo

noi, rigogliosi nei nostri corpi

adolescenti, essere uno scarto,

il difetto di una natura

che non tiene? Ci convinsero.

Ci persuasero all’autonegazione.

Noi, così giovani, fummo costretti

a riabilitare i nostri corpi,

obbligati a guardare in faccia la nostra

natura e sopprimerla con un’altra.

A dirci che potevamo essere

chi non volevamo, chi non eravamo.

Noi gli unici esseri innocenti.

Gli ultimi esseri viventi, noi,

trapiantati nel mondo dei morti

per sopravvivere.

 

La poesia ha in comune con la psicoanalisi la ricerca e la possibilità di significare e di far emergere quello che non è evidente.

Mi colpisce come la Vivinetto nella sua trasformazione non neghi ciò che è stata, non si dimentichi di Giovanni, sappia nominarlo, esplorarne il dolore, la perdita e “l’assassinio”. Avere a che fare con Giovanni significa riconoscere la propria colpa omicida, riconoscere di essersi sostituita e, soprattutto, di averlo deciso.  Alcuni strati si possono integrare, altri scompaiono per sempre. La morte a volte è rinascita altre volte è perdita, semplicemente.

 P.60

Tremano le scaglie di pelle

quando ti accosti piano. Nell’ombra

avvertono che tu capisci.

Ma dove ci nascondemmo

nulla è rimasto-qualche calcinaccio

ancora vibra allo sconforto

del tempo che non torna

[…]

Dovrai allontanarti da questa pelle

che ti riconosce, singulta

al tuo arrivo la carne-ti prega

di lacerarla pezzo a pezzo

per darle l’inconsistenza del volo.

Non c’è più spazio per noi.

Per questo corpo che si apre a te

in un coro di mani fanciulle.

Vedranno gli altri che non è

solo pelle questa bassa coltre

che soffoca e spaesa il cuore.

 

  p.79

Talvolta il terrore dell’assenza mi sconvolge-quando mi accorgo che lo spazio che occupa il mio corpo era esattamente il tuo. Con me porto anche le tue radici.

 

Giovanni e Giovanna sono in un dialogo continuo. Il primo inizialmente più presente, la seconda più antica e silenziosa. Amore e odio. Dalla morte dell’uno dipende la vita dell’altro.

 

p.26 All’inizio non ci piacemmo affatto.

Fu uno squadrarsi da lontano

come fanno i gatti di notte

gonfi e diffidenti- un po’ goffi.

Le prime settimane tu sedevi

in fondo alle scale e mi fissavi

con lo sguardo di chi porta con sé

un segreto che non si può dare.

[…]

In realtà volevi darmi tempo.

Mi avevi protetta per diciotto anni

ed io non lo sapevo – vedevo

in questi silenzi una minaccia,

una beffarda provocazione

a indovinare quale pensiero

mi precludevi, quale angoscia

mi risparmiavi-sbagliavo.

[…]

Quegli occhi erano una preghiera, un inno muto alla rinascita.

 

p. 49

Dev’esserci stato in questo corpo

Un punto scoperto, indifeso

Un angolo lasciato illeso,

un grumo di nervi intoccato.

In quel punto noi ci incontravamo,

rifuggivamo da chi non capiva

additandoci l’incomprensione del mondo.

Solo lì avevamo il diritto

di amarci senza presupposti,

senza congetture-solo lì

ci conoscevamo davvero.

Dev’esserci stato in questo corpo

un ponte ancora in piedi

un traliccio telefonico

a recapitarti la mia chiamata.

Dev’esserci un muro senza ombre

di morti, un rifugio dove scappare

sempre-in questo corpo.

 

L’esperienza della perdita e della morte riguardano anche i genitori. La Vivinetto riesce a “farsi ponte”, si fa Caronte anche degli stati d’animo dei genitori, li comprende, li tiene dentro di sé, perché riesce ad attingere ai propri ragionevoli dubbi, alla propria fatica di accettazione, alla difficoltà del ridefinirsi e di trovare un nuovo nome:

P.124 A forza di strappi la madre comprese

di dovere lasciare andare suo figlio.

D’un tratto capì che non era il parto

a fare la madre né il sangue.

Era il bisogno, la necessità

di dare un genitore alla sua bambina

capitata insicura tra gli eventi

p.120

Nel padre…

Rimase in fondo allo sguardo

una desolazione appena visibile.

Quasi un inconfessabile grido.

In pubblico ormai era “mia figlia”

Per la prima volta nella vita

Il padre era sceso a compromessi

Imparò il nuovo nome più per se stesso,

per convincersi che fosse innocuo

e che nel pronunciarlo non sembrasse

un insulto.

La propria rivoluzione personale, talvolta, comporta il rimanere soli con la propria pelle, tollerare di essere alieni per gli altri e per se stessi, poco conosciuti, perché non assimilabili a qualcosa di già noto. Vivinetto fa parlare il corpo, la carne si agita ed il movimento interno arriva perché non riguarda solo il corpo fisico, ha a che fare con l’anima.

 

Non ho ferite che appaiono. I miei

dilemmi sono annidati ben oltre la carne.

Eppure chi mi definisce addita

Il corpo come sola dimensione possibile.

 

 

Vivinetto rende bene la carnalità del suo passaggio, la transizione è metafora di tanto altro, ma per chi la vive è un corpo tagliato, un corpo che ha memoria delle cicatrici:

 

P. 87

Poi il corpo è andato da un’altra parte.

Si è dissolto, si è addensato, si è confuso.

Ha rigettato le tracce che avevi

impresso- le porte che a me conducevano sono state divelte.

Così con il male in tutti gli organi,

con la malattia fra noi, noi,

per la prima volta increduli,

non ci conoscevamo affatto

e si è dovuto per forza

essere due. Si è dovuto

con la paura agli occhi

dubitare di sé e del corpo

Di queste ingannevoli mani.

 

 

Quello di Vivinetto è un viaggio di scoperte, fatiche, confusione e paure.

 

“Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più di avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti”

Italo Calvino: Le città invisibili

 

 

 

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