San Patrignano: luci ed ombre della cura

 

Sanpa la serie che chiude il 2020 su Netflix mi ha fatto tornare alla mente, quanto fossero presenti le vicende di San Patrignano nella cronaca degli anni 80 e 90.

 

A metà degli anni settanta Vincenzo Muccioli si trasferisce in un podere nel comune di Coriano di proprietà di sua moglie, con la volontà di aiutare una ragazza con problemi di tossicodipendenza. Erano gli anni dell'eroina in Italia, anni in cui esplose in tutta la sua forza questa nuova emergenza. Il 30 ottobre 1979 viene costituita la cooperativa di San Patrignano che ha come suo obiettivo principale fornire assistenza gratuita ai tossicodipendenti ed agli emarginati.                                                                                                                                             

 

Il lavoro cinematografico, diretto dalla regista anglo-senese Cosima Spender, ci ricorda quanto Vincenzo Muccioli, figura carismatica, sia stato al centro del dibattito politico sociale per la vocazione paterna, la personalità forte, autoritaria, i metodi di cura proposti ai ragazzi tossicodipendenti decisamente discutibili.

 

La serie tv racconta come l’accudimento dei ragazzi in difficoltà, sia passato anche dalla segregazione e dalla messa in catene. Non nascondo la mia indignazione da persona e da terapeuta della parola, nel pensare all’utilizzo di strumenti deumanizzanti, dimentichi della violenza agita.

 

Eppure, la gloria di San Patrignano è stata mantenuta: nel 1991 è riconosciuta come fondazione ed ente morale dallo Stato italiano, in seguito all’atto con cui Muccioli e la sua famiglia cedono in donazione tutti i propri beni immobiliari alla comunità. L’impegno dell’istituzione viene riconosciuto anche dalle Nazioni Unite, tanto che viene accreditata nel 1997 come organizzazione non governativa (ONG). con lo status di “consulente speciale presso il consiglio economico e sociale dell’Onu”. 

La comunità cresce in fretta, anche per il determinante aiuto di Gianmarco e Letizia Moratti che, nel corso del tempo, contribuirono con 286 milioni di euro[1].

Rimango colpita dall’ingente somma di denaro e non nascondo la  curiosità di conoscere maggiormente come mai ci sia un legame cosi forte tra la politica, la ricchezza ed il sociale. Mi chiedo quali siano i motivi che abbiano portato a finanziamenti cosí significativi, cosa abbia giustificato il devolverli a questa struttura e non ad un’altra? 

Facile sarebbe lo schieramento netto che definisce ciò che e buono e ciò che è cattivo, ma l’oscillazione tra una visione idealizzata del fondatore ed un’altra denigratoria- distruttiva non mi appartiene.

 

“Cresciuto nella convinzione di non essere stato amato dal padre, Muccioli cercò, forse, nell’abnegazione alla sua missione di paternità espansa e salvifica un modo per sconfiggere un ‘fantasma di diminuzione’, di insufficienza rispetto alle aspettative paterne: insieme a quella su chi fosse veramente Muccioli, una domanda che percorre, pur non didascalicamente, l’intero documentario è perché, in fondo, facesse quel che faceva. Per spirito caritatevole? Per un inconscio desiderio non solo di affermazione e di potere, ma anche di riconoscenza da parte dei figli salvati? Il docu-film evidenzia la trasformazione da filantropo visionario a leader carismatico dai poteri non solo taumaturgici, ma anche più prosaicamente politici, SanPa sollecita un gran numero di riflessioni di non facile risoluzione.”[2]

 

Paolo Migone, psicoanalista che ha avuto esperienza con ragazzi tossicomani mi aiuta ad integrare le misure coercitive, che evidentemente non giustifico, con la terapia della parola propriamente detta, spiega le ragioni dell’abbinare un approccio autorevole alla psicoanalisi classica. Spesso le persone tossicodipendenti accettano di buon `grado l’inizio di una psicoterapia, ma tendono, affidandosi, a delegare alla figura del terapeuta, tutta la responsabilità della riuscita della disintossicazione.

 

“Il paziente proietta il Super-Io (cioè le sue funzioni di controllo) sul terapeuta, sarà lui a guarirlo, ci penserà lui, come in una sorta di pensiero magico, di idealizzazione onnipotente dell'altro come "salvatore" (che non a caso, con un'altra proiezione, diventerà subito il colpevole non appena nel paziente crescerà la frustrazione per non aver fatto nessun passo avanti rispetto alle precedenti aspettative onnipotenti – e tipicamente molti terapeuti cadranno nella trappola di questa identificazione proiettiva, sentendosi tremendamente in colpa di fronte alle accuse dei pazienti appena finisce il ben noto fenomeno della "luna di miele" terapeutica [per il concetto di identificazione proiettiva, vedi Migone, 1988]).”

 

Il paziente deve aver subito chiaro che la funzione di controllo dell’utilizzo della sostanza non è del terapeuta, che ha invece il compito di comprendere la storia della persona e la struttura della personalità. Le comunità terapeutiche sembrerebbero funzionare, perché la fragilità dell’Io della persona è sostenuta da una struttura esterna, a volte molto rigida e ferrea, che stampella la difficoltà di mantenere l’astinenza. Sempre Migone spiega che “Quelli che "guariscono", molti dei quali non a caso poi lavorano a loro volta come operatori di comunità, spesso presentano tipici atteggiamenti duri, rigidi, a volte moralistici nei confronti della droga. Queste guarigioni possono apparire come una riproposizione della stessa patologia caratteriale in modo uguale e contrario, cioè in termini psicoanalitici come "non guarigioni", nel senso che cambia il comportamento ma rimane intatta la struttura intrapsichica sottostante, che in questo caso è la difficoltà a regolare una funzione (nel senso che o non controlla niente o controlla tutto).”[3]



Commenti

Post più popolari