Ticino d’amore
Ero piccola
Guardavo il fiume rosso
sperando ti scappassero le labbra

                                


 Città che conosci come le tue tasche, 
anche se in tasca ho quasi sempre qualcosa che non mi aspetto…

 

Pavia per me è cosí: città d’adozione all’università e nei primi anni lavorativi. Quando ci passeggio, ora, che vivo da tutt’altra parte, ho la sensazione perturbante di conoscere le persone che incontro, senza averne memoria, traccio una linea incerta sulle loro identità. Provo piacere a rimanere nebulosa e mi invento storie immaginifiche su chi possano essere. Vago alla ricerca dei luoghi di sempre, gli occhi chiusi prima di arrivarci vicino, trattengo il fiato, nella speranza nostalgica che poco sia cambiato. Cerco tracce che mi riportino indietro: la libreria del signore con i baffi, ad esempio,  in una piccola traversa del corso principale. Vende testi dalle edizioni meravigliose e gioielli speciali. Incontrai quel luogo subito dopo gli anni universitari, in un periodo in cui sentii la città fredda, distante, sbiadita per interesse, ci inciampai, rotolandoci dentro. La libreria in questione ha un’identità consolidata, sembra esserci da sempre, complice il palazzo antico che la ospita. Profumo di libri, tabacco di pipa, un posto di cui ti puoi accorgere solo al momento giusto, quando hai il coraggio di notarlo, di sentirti abbastanza forte per quella meraviglia un po’ bohemiene e muovi i primi passi per apprezzarne la  bellezza. Il proprietario, nel tempo, diventò un amico per  giorni pavesi pieni e leggeri. Le vie della città oggi sono emotivamente  potenti, perché è come se passeggiassi per un attimo in una vita nota che non è più mia, stonata, ma piacevole nella sua bizzarria. Questi luoghi mi riportano agli anni verdi, quelli dei germogli e mi sento un frutto maturo che ha coscienza del seme, del processo, dell’essere stato annaffiato, di essersi nutrito. Sono in pace.  Tra queste onde di ricordi mi sento in un sogno che, ad occhi aperti, non vorrei terminare. Così, piacevolmente abitudinaria, nei panni del frutto, ammiro la fluida lingerie di un negozio che da sempre sembra francese. Altezzoso ed elegante mi osserva ed io corro a   pranzo nella solita osteria, la mia preferita, in centro, pensando di tornare, poi, al negozio delle meraviglie, con la calma che merita la seta. Oramai a Pavia ci vengo solo poche volte l’anno per una collaborazione mantenuta in università. Non mi vengono facili i saluti, è come se dovessi tenere sempre vivo un pezzettino di me e tornar a far visita a questa città, che ha attraversato il tempo, ed è promemoria di chi ero. Metodica la mia pausa pranzo è, per abitudine scelta, in un’osteria, intima, in un vicolo poeticissimo. Spesso i luoghi che amo di più non sono immediatamente contattabili, timidi rimangono al riparo da sguardi indiscreti e si notano nel tempo, con la loro bellezza introversa.  Questo luogo d’amore, mi era quasi inaccessibile da studente squattrinata, ci cenavo, in qualche occasione considerata speciale, una ricorrenza forzata, attesa e consumata con l’ardore di chi ha atteso troppo e non è abituato agli assaggi lenti degli eventi. Il costo non è mai stato elevato in realtà, soprattutto per il pranzo, ma ai tempi mi sembrava un vero lusso. Quindi, quando ora siedo, assaporo, forse un po’ impettita,  la conquista di essermi presa il mio posto, di potermelo permettere, senza la fatica di contare gli spiccioli.  Davanti a me, un risotto doc. ed un bicchiere di vino, la strada sbieca di ciottoli, gli alti muri ed un albero imponente, che svetta, la spunta, fa a gara con i vorticosi perimetri delle cinte. Adesso ho imparato a stare sola, in compagnia di me stessa, pranzo senza nessuno, ascolto i pensieri che arrivano e mi prendo il tempo di osservare il ritmo di quel che mi circonda. Provo meraviglia ogni volta che il proprietario mi saluta con calore, si ricorda di me negli anni: nonostante gli ormai  rari appuntamenti sembra sappia del segreto amore che provo per “casa” sua.

 





 

 

 

 

 

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